Da queste parti ogni luogo ha una storia da raccontare, ogni angolo una meraviglia da donare agli occhi del forestiero: è il territorio di Pesaro e Urbino, altrimenti detto la ‘Provincia dei cento castelli’. Ma se l’incanto che sembra voler tracimare fuori da questo minuto angolo di mondo richiama visitatori da ogni dove, allo stesso tempo conferisce un’immeritata invisibilità ai centri minori.
E allora, se Urbino è l’incantevole dama rinascimentale e Gradara l’accattivante soubrette che, costantemente intenta a incipriarsi il naso, strizza l’occhio al medioevo, oggi mi va di raccontare della ragazza acqua e sapone che ogni giorno si spezza la schiena nei campi: oggi dico un pezzetto di Mombaroccio, un frammento piuttosto rappresentativo di questo bel borgo perso in un’infinita distesa di terre coltivate e che va sotto il nome di ‘ Museo della Civiltà Contadina ’.
Il Museo della Civiltà Contadina di Mombaroccio
Capita spesso, a chi è avvezzo scoprire quei tesori inestimabili che sono i piccoli paesi d’Italia, di imbattersi in un qualche museo contadino tirato su alla come viene viene, fatto di pochi attrezzi sovente aggrediti dalla ruggine. E’ bene allora dire che quello mombaroccese – vuoi per l’estensione, vuoi per le cure ad esso riservate dal personale, vuoi per la completezza – è uno dei pochissimi Musei della Civiltà Contadina riconosciuti dalla Regione Marche.
Sono oggetti in gran numero, oggetti di lavoro manuale o supportato da forza animale, a comporre le collezioni ubicate presso le cantine dell’ex convento quattrocentesco di San Marco, un tempo sede di frati appartenenti all’Ordine dei Girolomini. L’esposizione di attrezzi realizzati tra il ‘700 e il 1970, quasi sempre artigianalmente, occupa ben dodici vani e si estende per oltre trecentoventi metri quadrati fin sotto la piazza del paese.
I reperti sono ordinati e suddivisi in maniera ottimale al fine di ricreare –occorre dire in maniera piuttosto verosimile – ambienti di lavoro e di vita quotidiana tipici di un passato recente eppure distante anni luce dalla contemporaneità. Un tempo fatto sì di fatica, ma anche più dilatato, più umano, dove forte era quel senso di comunità di cui oggi sentiamo un gran bisogno e che probabilmente è andato definitivamente perduto.
In questo luogo magico gli oggetti si raccontano mostrandosi, e se talvolta fa loro difetto la parola, saranno gli zelanti membri della proloco a prestare soccorso, magari narrando di tecniche di produzione ormai in disuso e vive unicamente sapere di qualche studioso e nella memoria tenace di donne e uomini decisamente in là con gli anni.
Tra le stanze che più sono capaci di sorprendere il visitatore è necessario annoverare la sartoria, la cucina della casa colonica e le botteghe artigiane, come quella del fabbro, del falegname o del ciabattino. Interessanti anche la neviera e le grotte, grotte attorno alle quali le malelingue più ardite sono andate intessendo nel corso del tempo un complesso sistema di dicerie. Quei poveri frati, però, se lo sarebbero dovuto aspettare, allorché a forza di braccia presero a scavare il tunnel sotterraneo che porta – si dice - dritto dritto a quello che era l’attiguo convento femminile.
Un sorriso e, soprattutto, buona visita!